Il linguaggio

di Andrea Sciuto

L’arte cinematografica è indubbiamente quella che è riuscita, meglio di tutte le altre, nel corso del novecento, a guadagnarsi una vasta fetta di pubblico.

Inizialmente denigrato per circa metà del suo secolo di appartenenza da personaggi come Adorno, che inserisce il grande schermo nel calderone dell’industria culturale, il cinema riesce a conquistare la curiosità di varie classi sociali sancendo l’inizio di tutto quelle che saranno le tecnologie atte al miglioramento dell’esperienza in sala e, successivamente, a casa.

Ma cos’è che lo ha reso così popolare? Sicuramente il suo linguaggio.

Quello cinematografico infatti, in particolare nei primi anni, tranne in alcuni casi come il cinema sperimentale o di ricerca, concede allo spettatore un contenuto più immediato e facile da comprendere.

La difficoltà consiste proprio in ciò: rendere di facile comprensione ciò che si sta mostrando. Per questo si parla di linguaggio. L’unione di vari elementi quali la scenografia, la fotografia, il montaggio, l’utilizzo dei colori riescono a darci svariate informazioni, anche in un singolo frame.

Il discorso può sembrare molto banale ma è proprio dall’analisi di tutti questi fattori che riusciamo a capire perché ad una data inquadratura corrisponde un dato sentimento.

Cosa sarebbe un capolavoro come Citizen Kane (Orson Welles, 1941, RKO) senza le calibrate posizioni della macchina da presa, del personaggio e disposizione della scenografia a dare quell’idea di reale piccolezza dell’uomo che non sa fare i conti contro il vero se stesso?

Stessa domanda la si può porre per Kurosawa e il suo uso di estensioni temporali, detti anche slow motion, per creare il clima di solennità e iper drammatizzazione tipici nelle sue rappresentazioni delle grandi battaglie del Giappone feudale, come accade in Ran (Akira Kurosawa, 1981, Serge Silberman, Masato Hara) o Kagemusha (Akira Kurosawa, 1980, Kurosawa Production Co., Toho, 20th Century Fox)

Il caso appena esposto è molto particolare, come tanti altri registi, vedasi ad esempio Antonioni, Godard o Hou Hsiao-hsien che si confrontano con realtà artistiche diverse dalle loro, anche Kurosawa compie questo atto di manierismo, ma in maniera più specifica, quasi ascetica, Ran è una dichiarata rielaborazione del Re Lear di Shakespeare, come a voler ricordare che il debito che ha il cinema con il teatro non è ancora stato esaurito, e i già citati slow motion di Kagemusha sembrano essere accostabili a La battaglia di San Romano di Paolo Uccello, pittore del ‘400 cui utilizzo della prospettiva fu di forte contribuito anche nella scenografia teatrale del rinascimento.

Vediamo quindi quanto sia fondamentale la conoscenza di altri tipi di linguaggi artistici per la realizzazione delle proprie opere, in particolare come il grande regista giapponese, attraverso un certo tipo di citazionismo, riesce a dare quel senso di grandiosa magnificenza, distruzione e rovina.

Nei prossimi articoli analizzeremo tutti i linguaggi cinematografici nel dettaglio, che caricheremo in una rubrica dedicata.