Amore, psicologia e ironia: il cocktail unico di Woody Allen

di Edoardo Certelli

Gli anni ’70 sono stati senza dubbio uno dei periodi più fortunati e artisticamente prolifici del cinema mondiale, in particolare di quello americano. Tra i titoli storici che hanno marcato questo decennio in modo indelebile figurano mostri sacri come Taxi Driver, Il padrino, passando per Arancia Meccanica e Lo Squalo.

Io e Annie, l’opera massima di Woody Allen, si inscrive con merito in quest’età dell’oro per le innovazioni portate in un genere storicamente rigido e impostato come la commedia sentimentale e per gli iconici personaggi di Alvy Singer ed Annie Hall, così vicini allo spettatore medio da risultare praticamente “reali”.

Questa vicinanza non è affatto un elemento casuale. Allen gioca sin dalla primissima sequenza con la quarta parete, parlando direttamente allo spettatore a ruota libera, come farebbe chiunque con un amico fidato.

La rottura degli schemi preesistenti diviene chiara quando Singer più volte si trova ad uscire dalla realtà parallela della pellicola interagendo direttamente con gli spettatori, creando così un coinvolgimento emotivo senza precedenti nei confronti del pover’uomo che si trova a fare i conti con i cocci di un amore finito in frantumi.

Il film è infatti interamente un ricordo di Alvy che, dopo la separazione con Annie, ripercorre la loro relazione sin dall’inizio alla ricerca delle crepe che l’hanno compromessa e cercando di individuare il momento in cui esse hanno cominciato a formarsi. Allen conferisce alla narrazione una forte impronta psicoanalitica, spingendo così il suo personaggio a rapportarsi ai suoi ricordi in relazione alle sue paure più nascoste ed ai suoi problemi dell’infanzia.

Il viaggio di Alvy è costellato in ogni momento dalla classica ironia alleniana, penetrante e sardonica, mai banale e spesso esilarante e, come accade solo nella comicità di alto livello, rivestita di una patina di malinconia ed avvilimenti.

Il successo del film all’epoca fu totale, trionfando anche ai Premi Oscar come miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura e miglior attrice per Diane Keaton. A livello di regia Allen non rinuncia, in un film decisamente più incentrato sul dialogo, alla ricerca del quadro perfetto e della luce migliore: anzi, trova spesso soluzioni fini ed eleganti, alternate alle ormai classiche innovazioni al genere.

Per quanto concerne la sceneggiatura, è risaputo che la scrittura è il cavallo di battaglia di Allen da sempre, ma probabilmente non si esagera se si afferma che in questo film egli raggiunga il picco mai più eguagliato della sua lunghissima carriera: basti vedere le influenze che questo copione ha generato e quanto molte battute vengano citate tutt’oggi.

Io e Annie rappresenta anche la consacrazione per Diane Keaton, che aveva visto la sua carriera decollare pochi anni prima grazie a Il Padrino, capace di dar vita ad un personaggio di grande semplicità, eleganza e femminilità: non di sicuro la canonica femme fatale, ma più la donna della quale chiunque potrebbe innamorarsi.

Io e Annie è un’opera che non può mancare nel bagaglio di un appassionato, per ovvi motivi di importanza storica e culturale. Rimane comunque un film per chiunque, profondo e interessante, non di certo la classica e stereotipata storia d’amore da televisione. Un film che non può lasciare indifferenti.