di Edoardo Certelli

Fenomenologia di un capolavoro

Qualche settimana fa è stata resa pubblica dalla BBC una lista redatta da 177 critici provenienti da tutto il mondo, con l’obiettivo di designare i cento migliori film del ventunesimo secolo. Al primo posto, a decisione apparentemente quasi unanime, si trova l’opera massima di David Lynch, Mulholland Drive: un film che nonostante ciò otterrà la risonanza che merita solo tra qualche decennio, perché troppo spesso l’umanità ha bisogno di molto tempo per riconoscere l’arte allo stato puro.

Ma cosa rende questo titolo capace di primeggiare in questa classifica e degno di essere accostato ai più grandi classici del cinema?

E’ indispensabile premettere che Mulholland Drive non è solamente un film. Con il suo stile inconfondibile, Lynch guida lo spettatore all’interno di una vicenda oscura, che nonostante i continui misteri insoluti sembra mantenere una certa linearità, che viene completamente spezzata negli ultimi trenta minuti: un viaggio che, come si scopre ben presto, non riguarda solo la giovane protagonista, ma sembra afferire ad ognuna delle nostre paure, dei nostri sogni, ed alla paura di sognare. Perché ognuno di noi è stato Betty, e ognuno di noi è stato Diane.

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Mulholland Drive è un film che lavora a livello prettamente sensoriale: le contraddizioni dei protagonisti non sono mai esplicitate, ma sono affidate a vari espedienti di cui si coglie la vera valenza solo al momento della verità.

Diversi personaggi rimangono oscuri, inspiegati, e tuttavia muovono qualcosa nel profondo, come se appartenessero un poco a ciascuno di noi, come se fossero l’espressione di qualcosa che fa parte della nostra mente ma a cui non riusciamo a dare forma concreta. La regia si muove proprio in questo senso: tra molte sequenze di una maestria assoluta, l’avvenimento successivo non è mai anticipato e spesso non è neanche logico, quasi ad invitare lo spettatore a costruire la propria storia da sé.

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Menzione a parte meritano le musiche di Angelo Badalamenti, l’uomo dell’espresso nel film, che pur nella loro semplicità intervengono sempre al momento giusto a colorare la vicenda di ombre e di dubbi.

Poco da dire invece sulla scena del club Silencio, forse una delle più intense della storia del cinema, in cui la poetica di Lynch raggiunge il suo forse insuperabile picco. Davanti ad uno spettacolo del genere, si può solo fare silenzio.

Merita di sicuro più di una citazione la prova recitativa del cast, completamente immerso nell’universo onirico di Lynch. La maggior parte degli onori vanno fatti a Naomi Watts, capace di fornire una performance a dir poco fenomenale, riuscendo a sdoppiarsi in modo perfetto tra la sognatrice e la rancorosa, creando di fatto due personaggi uguali ma profondamente diversi, simboleggiando la scissione tra sogno e realtà; ed è attraverso di lei che Lynch critica in modo spietato Hollywood e l’industria cinematografica tutta.

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E’ impossibile negare che Mulholland Drive sia un film particolare e, in quanto tale, forse non è un film per tutti. E’ un’opera che per forza di cose ognuno vedrà con un occhio diverso, con una percezione differente e distorta a seconda delle inclinazioni personali. Di sicuro, per chi vuole intraprendere un viaggio tormentato all’interno della propria mente non esiste nulla di più adatto. Nell’attesa che il tempo galantuomo gli tributi gli allori che merita.